Ripetizione dell’indebito – interesse ad agire

L’interesse ad agire con l’azione di ripetizione dell’indebito, ex art. 100 c.p.c., nel caso in cui il rapporto di conto corrente è in essere, diviene attuale con la domanda di risoluzione del contratto posto in essere con la banca.

Una delle questioni pregiudiziale, eccepita nel corso di causa, riguardava la circostanza che l’interessato avesse agito, per la ripetizione dell’indebito, sebbene il rapporto fosse in corso, eccezione respinta dal giudice che ha fatto riferimento alla giurisprudenza recente della Suprema Corte, la quale ha evidenziato che: “in linea di principio, l’azione di indebito sia ammissibile, nonostante sia accompagnata dalla  precedente domanda di dichiarazione di nullità, solo se il rapporto di conto corrente sia chiuso”, ma, tale regola, non trova applicazione nell’ipotesi di “pagamenti solutori”, in cui  il correntista può agire in giudizio, anche se il rapporto di conto corrente non sia chiuso, considerato che si tratta  di veri e propri pagamenti.

In tali ipotesi, infatti, qualora il correntista non agisca in giudizio, corre il rischio di incorrere nell’eccezione di estinzione per avvenuta prescrizione decennale, poiché si tratta  di somme indebite per nullità della previsione di clausole contrattuali.

Giova precisare che,  nel caso in cui il contratto venga dichiarato risolto, l’eventuale saldo a credito del correntista diviene una somma esigibile, per il venir meno dell’obbligazione, per cui si può chiedere la ripetizione della somma.

Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

Arbitro Bancario Finanziario, decisione 24.06.2014 n° 3955

Un caso, trattato dal Collegio di Roma riguardavadue contratti di finanziamento che prevedevano dei tassi di interesse corrispettivi e moratori, la cui somma superava il tasso soglia dell’usura, per cui il ricorrente chiedeva l’accertamento della nullità dei contratti stipulati e la condanna della banca alla restituzione degli interessi usurari già percepiti.

Nel risolvere la controversia, l’ordinanza emessa dal Collegio di Roma in data 06.03.2012 si è adeguata a due recenti orientamenti del Collegio di coordinamento dell’Arbitro bancario e finanziario (cfr. 1875 del 18 marzo 2014 e 3412 del 23 maggio 2014), i quali sotto vari profili si sono discostati dagli indirizzi espressi sul tema dalla Cassazione.

In primo luogo, si è affermato che: “per verificare se sia stato superato il limite, posto dall’art. 644, comma 3, c.p.c dall’art. 2, comma 4, della l. n. 108/1996, il tasso degli interessi moratori non deve essere sommato a quello degli interessi corrispettivi”.

In secondo luogo, mettendo in luce il carattere di liquidazione preventiva e forfetaria del danno risarcibile in caso di inadempimento di obbligazione pecuniaria, la pattuizione relativa agli inte= ressi moratori è stata qualificata come  “clausola penale”.

Ne è derivato l’applicabilità della disciplina sulle clausole vessatorie, prevista dagli artt. 33, comma 2, lett. f) e 36, comma 1, del codice del consumo (sul punto, già Collegio di coordinamento n. 1875 del 18 marzo 2014), per cui l’ABF romano ha dichiarato che la misura degli interessi moratori era da considerarsi “manifestamente eccessiva, quindi vessatoria”, ex art. 33, comma 2, lett. f) c. cons. e, conseguentemente, nulla, ai sensi dell’art. 36, comma 1, c. cons., rilevandosi che: “in seguito alla declaratoria di nullità di una clausola sugli interessi moratori, la banca non ha diritto alla corresponsione da parte del consumatore degli interessi determinati ai sensi dell’art. 1224, comma 1, c.c.”, ciò anche in forza direcenti sentenze della Corte di giustizia, volte a riconoscere un’accentuata efficacia deterrente alla normativa della direttiva 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.

La questione esaminata dai giudici della Corte di giustizia di Lussemburgo, attiene alle conseguenze derivanti dalla pronuncia di vessatorietà di una clausola, all’impostazione tradizionale secondo cui la lacuna (sopravvenuta) deve essere colmata mediante il diritto dispositivo, cui si contrappone una tesi maggiormente “funzionalista” (fatta propria dall’ordinanza del Collegio di Roma) che, escludendo l’applicazione del diritto dispositivo, favorisce la posizione del consumatore.

In definitiva, ad avviso dell’ABF, l’accertamento della natura vessatoria della clausola determina soltanto la nullità della clausola, e dunque la sua caducazione, mentre la sopravvenuta lacuna contrattuale non deve essere integrata dal diritto dispositivo (ossia dall’art. 1224, comma 1, c.c.).

Tuttavia, posto che l’interpretazione prospettata non può dirsi sicura, in virtù del complesso quadro normativo di riferimento, l’ordinanza ha rimesso la questione al Collegio di coordinamento.

Accertata, quindi, la nullità della clausola, che determina in misura manifestamente eccessiva il tasso degli interessi moratori, è necessario stabilire se questi ultimi siano pur sempre dovuti, ex art. 1224, comma 1, c.c., oppure non debbano essere pagati.

In termini più generali, occorre verificare se, in seguito alla declaratoria di nullità della singola clausola, il contratto debba o meno essere integrato mediante il diritto dispositivo.

Nella nostra dottrina, il problema della c.d. “integrazione cogente”, facente seguito a fattispecie di nullità parziale, è stato affrontato soprattutto con riferimento all’art. 1339 c.c. che disciplina l’inserzione automatica di clausole in sostituzione di una pattuizione che viola una norma imperativa.

La novità del caso in esame risiede nella circostanza che, la nullità di protezione ex art. 36 c. cons., è idonea a colpire altresì clausole in deroga a norme dispositive, così che si è posto il problema di rinvenire una diversa base normativa per l’integrazione mediante diritto dispositivo.

Prima dell’avvento della disciplina di derivazione europea non si profilavano ipotesi di nullità conseguenti a deroghe al diritto dispositivo, in quanto lo stesso diritto dispositivo era considerato derogabile tout court in virtù dell’autonomia contrattuale delle parti.

Mancando il presupposto per ipotizzare l’operare del meccanismo sostitutivo, non appare logicamente configurabile una integrazione del contratto mediante diritto dispositivo.

Investito della questione di cui sopra, il Collegio di Coordinamento con la decisione n. 3955 del 24 giugno 2014, richiamando la giurisprudenza della Corte di Giustizia (secondo cui a seguito della dichiarazione di abusività della clausola penale occorre solamente procedere alla sua disapplicazione evitando qualsivoglia intervento integrativo e/o correttivo sul contratto onde evitare di compromettere il carattere dissuasivo risultante dalla dichiarazione di nullità della clausola abusiva), così richiamandosi ad altro orientamento europeo favorevole alla integrazione c.d. dispositiva, cioè alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea pubblicata il 30 aprile 2014 (causa C-26/13, Árpad Kásler e Hajnalka Káslerné Rábai contro OTP Jelzálogbank Zrt), la quale ha affermato il seguente principio di diritto: “L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, ove un contratto concluso tra un professionista e un consumatore non può sussistere dopo l’eliminazione di una clausola abusiva, tale disposizione non osta a una regola di diritto nazionale che permette al giudice nazionale di ovviare alla nullità della suddetta clausola sostituendo a questa ultima una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva”.

Principio di diritto che si riferisce, però, all’ipotesi in cui il contratto di finanziamento non possa sussistere dopo l’eliminazione di una clausola abusiva.

Tali considerazioni non valgono però nel caso in cui la clausola abusiva sia quella che determina il tasso degli interessi moratori, perché il contratto è allora perfettamente suscettibile di sussistere senza tale clausola, restando vincolante per il resto.

Va da sé che l’applicazione del modello sanzionatorio di cui all’ art. 1815, 2° comma comporta il dar corso alla applicazione analogica di norma speciale, e, più ancora, di norma speciale il cui presupposto è la commissione di un illecito penale.

Spetta, quindi, al giudice nazionale valutare il carattere effettivamente dissuassivo della sanzione della nullità della clausola abusiva, raffrontando nelle circostanze della causa di cui è investito, gli importi che il creditore avrebbe riscosso come remunerazione del prestito secondo il programma contrattuale originario con quelli che egli percepirebbe in applicazione della regola di diritto che sostituisce la clausola annullata.

Da rilevarsi che l’applicazione dell’art. 1224 c.c. conduce però ad una situazione diversa da quella che si creerebbe a seguito dell’applicazione dell’art. 1384 c.c.

In quest’ultimo caso, infatti, a seguito della riduzione dell’ammontare eccessivo della clausola penale sugli interessi moratori, gli stessi continuano ad essere dovuti, sebbene in maniera inferiore a quanto pattuito, nel mentre, con l’applicazione dell’art. 1224 c.c., si ottiene l’effetto pratico di estendere al periodo di mora il tasso degli interessi corrispettivi stabiliti contrattualmente ove quest’ultimo tasso sia, come quasi sempre accade, superiore al tasso legale.

Inoltre l’applicazione dell’art. 33, comma 2, lett. f), del codice del consumo, con gli effetti previsti al successivo art. 36, comma 1, non comporta formalmente alcuna sostituzione (vietata dalla direttiva 93/13 che prevede come conseguenza la non vincolatività) di clausole contrattuali, come diversamente avviene nell’ipotesi di cui all’art. 1384 c.c.

Infatti, la possibilità della banca di esigere, dopo la mora, il pagamento di interessi moratori nella misura concordata per gli interessi corrispettivi, derivante dall’art. 1224 c.c., non solo non ha fondamento nel contratto, essendo evidentemente una obbligazione ex lege, ma non ha la propria causa nella volontà delle parti di predeterminare la misura del risarcimento, che deve compensare il sacrifico imposto al creditore dall’inadempimento del debitore, ma ha la propria causa sostanziale nella considerazione che il sacrificio imposto al creditore deluso non può essere riparato in misura inferiore a quella che lo stesso ha accettato per il periodo di fisiologica esecuzione del negozio creditorio.

Inoltre, cancellare totalmente l’obbligo di pagamento degli interessi moratori (nel caso in cui risultino eccessivi e sproporzionati), creerebbe un incentivo assai elevato all’inadempimento nelle obbligazioni pecuniarie, con conseguente sconvolgimento del sistema del credito, portando non ad una modifica conformativa del rapporto di credito, ma ad un capovolgimento del sistema degli incentivi e disincentivi che regolano un sistema creditizio.

Pertanto, l’obbligo del debitore inadempiente di continuare a pagare gli interessi convenuti, rappresenta la massima sanzione civilistica che si possa prevedere e che quindi è apparsa al Collegio di Coordinamento indubitabilmente adeguata atteso che la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia non sembra affatto orientata a contraddire né il principio fondamentale di conservazione del contratto, né la superiore esigenza che i rapporti economici nascenti dal contratto rimangano equilibrati (cfr. Corte di Giustizia, C-26/13 Árpád Kásler, Hajnalka Káslerné Rábaidel 30 aprile 2014, punti 80-83).

Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

 

Il diritto dispositivo – pronunciamento in contrasto

Tra le sentenze maggiormente rappresentative della teoria c.d. funzionalista che escludono l’applicazione del diritto dispositivo vi è certamente quella della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez. I, n. 618 del 14 giugno 2012, la quale ha affrontato la questione degli effetti della nullità della clausola abusiva, contemplata in un contratto tra professionisti e consumatori.

Si trattava, quindi, di capire quali fossero gli effetti della “disapplicazione” della clausola abusiva, cioè se vada identificata con la mera caducazione ovvero se vada a determinarsi l’integrazione della lacuna, mediante il ricorso alla disciplina dispositiva abusivamente derogata, ovvero ad altra regola di costruzione giudiziale.

L’orientamento della Corte è stato nel primo senso, ritenendo incompatibile con l’art. 6 della direttiva 93/13, la disciplina spagnola di cui all’art. 83 del Real decreto Legislativo1/2007 (Texto refundido de la Ley Generale para la defensa de los Consimidores y Usurarios), che consente la sostituzione della clausola nulla con regole ricostruite dal giudice attingendo, magari, proprio al diritto dispositivo.

Per la Corte, solo la pura obliterazione del patto è realmente idonea a privare di “forza vincolante” la clausola vessatoria, così che, il contratto, depurato della clausola abusiva, può conservarsi «senz’altra modifica che non sia quella risultante dalla soppressione delle clausole abusive».

Secondo la pronuncia in esame, la pura obliterazione del patto, per un verso, sarebbe l’effetto naturale della non apposizione, per l’altro produrrebbe un effetto gravemente penalizzate per il professionista, così dispiegando effetti deterrenti all’inserzione del patto abusivo.

Sicché, l’integrazione c.d. dispositiva sarebbe contrastante con il diritto europeo, e segnatamente con l’art. 6, paragrafo 1, e con l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.

L’art. 6, paragrafo 1, della suddetta direttiva statuisce che: «Gli Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive».

L’art. 7, paragrafo 1, della suddetta direttiva, a sua volta, statuisce che: «Gli Stati membri, nell’interesse dei consumatori e dei concorrenti professionali, provvedono a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori».

Infatti, la sentenza afferma che: “l’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE osta a una normativa di uno Stato membro che consente al giudice nazionale, qualora accerti la nullità della clausola abusiva in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, di integrare detto contratto rivedendo il contenuto di tale clausola”.

Principio di diritto ribadito dalla Corte di giustizia nella causa C-488/11 (sentenza del 30 maggio 2013), con la precisazione che: “l’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE, non può essere interpretato nel senso che consente al giudice nazionalequalora quest’ultimo accerti il carattere abusivo di una clausola penale in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, di ridurre l’importo della penale imposta a carico del consumatore anziché disapplicare integralmente la clausola in esame nei confronti di quest’ultimo.

Le suddette sentenze della Corte di giustizia fanno ritenere che, nei contratti con i consumatori, sia vietato al legislatore di uno Stato membro dell’Unione europea non solo di attribuire al giudice nazionale il potere di ridurre a equità gli interessi moratori manifestamente eccessivi (secondo il modello dell’art. 1384 c.c.), ma anche di prevedere che, laddove sia nulla la relativa clausola contrattuale, essi siano dovuti nella stessa misura di quelli corrispettivi (secondo il modello dell’art. 1224, 1° comma, c.c.).

In primo luogo, si deve infatti rilevare che l’art. 1224, comma 1, c.c. non sembra “fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori”, com’è invece imposto agli Stati membri dall’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE.

Infatti, laddove gli interessi moratori decorressero comunque al tasso di quelli corrispettivi, il finanziatore si troverebbe  nella stessa situazione giuridica in cui si sarebbe trovato laddove la clausola abusiva non fosse stata apposta al contratto, senza tuttavia subire alcuna conseguenza giuridica ulteriore, che sia economicamente svantaggiosa.

Il ripristino, poi, della norma dispositiva (che fa decorrere gli interessi moratori allo stesso tasso di quelli corrispettivi ex art. 1224, comma 1, c.c.), coincide con la loro riduzione a equità da parte del giudice, ex art. 1384 c.c..

Viene così a meno, la differenziazione tra i consumatori e i non consumatori, i quali sarebbero tutelati in modo sostanzialmente omogeneo, con inevitabili frustrazioni delle finalità di tutela dei consumatori.

La Corte di giustizia UE, con sentenza del 14 giugno 2012, punto 69, precisa che la riduzione a equità della penale manifestamente eccessiva contribuirebbe a eliminare l’effetto dissuasivo esercitato sui professionisti dalla pura e semplice non applicazione nei confronti del consumatore di siffatte clausole abusive, dal momento che essi rimarrebbero tentati di utilizzare tali clausole, consapevoli che, quand’anche esse fossero invalidate, il contratto potrebbe nondimeno essere integrato, per quanto necessario, dal giudice nazionale in modo tale, quindi, da garantire l’interesse di detti professionisti.

Ed ancora la Corte di giustizia UE, con sentenza del 27 marzo 2014, punto 53, ha affermato che: “Se la sanzione della decadenza degli interessi venisse mitigata, ovvero puramente e semplicemente eliminata, a causa del fatto che l’applicazione degli interessi al tasso legale maggiorato può compensare gli effetti di una siffatta sanzione di nullità della clausola contrattuale che determina il tasso degli interessi corrispettivi, nel caso di specie, ne discenderebbe necessariamente che essa non presenta un carattere realmente dissuasivo”.

Si può, pertanto, concludere nel senso che: “accertata la nullità della clausola che determina in modo manifestamente eccessivo gli interessi moratori, perché abusiva ai sensi dell’art. 33, 3° comma, lett. f), cod. cons., essi non siano dovuti affatto, così disapplicandosi la norma dettata dall’art. 1224, comma 1, c.c., poiché incompatibile con gli artt. 6, paragrafo 1, e 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE”.

Resta peraltro fermo che le conseguenze della manifesta eccessività del tasso convenuto vengono a incidere solo sugli interessi moratori, ex art. 1224 c.c.,e non anche su quelli corrispettivi.

Fermo restando che è dovuto il pagamento delle quote di interessi corrispettivi che sono inglobati nelle rate già scadute, essi continuano altresì a decorrere sulla quote di capitale ivi inglobate, fino a quando non è adempiuta dal soggetto finanziato l’obbligazione di restituirle.

Resta altresì fermo che, secondo la disciplina generale della responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.), il finanziatore ha il diritto di essere risarcito del danno che costituisca la conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del soggetto finanziato (art. 1223 c.c.), purché ne provi l’esistenza (an debeatur) e l’ammontare (quantum debeatur).

 Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

Nullità dell’anatocismo trimestrale pattuito ante delibera CICR 9.2.2000

Il Tribunale Piacenza, con la sentenza n. 757 del 27 ottobre 2014,attingendo dalle più motivate sentenze emesse negli ultimi anni, ha dichiarato ”la nullità dell’anatocismo trimestrale pattuito anteriormente all’entrata in vigore della delibera CICR del 9 febbraio 2000”.

A tal fine il Giudice ha precisato che: “per poter riconoscere dette competenze alla banca sarebbe stata necessaria una nuova pattuizione scritta sul punto, sia perché la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 25, comma 3, D.Lgs. 342/1999 travolge la precedente pattuizione, sia perché l’applicazione dell’anatocismo trimestrale costituisce un peggioramento delle condizioni economiche del contratto, insito nella previsione di un anatocismo illegittimo e non dovuto”.

La nullità delle clausole contrattuali di rinvio agli usi, espressamente sancita dalla recente legislazione bancaria (art. 4, legge 154/92 e poi art. 117, d.lgs. 385/93), segna il definitivo tramonto, più che degli usi, degli abusi bancari, nel mentre la questione resta aperta, per i contratti bancari stipulati anteriormente all’entrata in vigore del nuovo T.U. in materia bancaria.

Per l’esigenza di regolamentare il transitorio, l’art. 161, comma 6, D.Lgs. 385/93 dispone che: “i contratti già conclusi ed i procedimenti esecutivi in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo sono regolati dalle norme anteriori”.

Principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità, che infatti così rileva: ”In relazione alla clausola in questione, che atteneva al primo contratto stipulato nel 1980, i giudici di merito si sono limitati a rilevare la nullità della pattuita eccedenza degli interessi rispetto alla misura legale, e a ricondurre l’accordo a legalità applicando la misura legale, come specificamente disposto dall’art. 1284 c.c., u.c.; non poteva, quindi, porsi alcuna questione di integrazione o sostituzione della clausola con diverse e/o successive norme, delle quali ultime la stessa ricorrente ha anche sottolineato l’irretroattività (cfr Cass. civ., Sez. I, sent. n. 11466 del 08.05.2008).

Dichiarando l’illegittimità della pattuizione del tasso ultralegale, il tribunale piacentino ha implicitamente ritenuto applicabile alla fattispecie il tasso legale.

Le norme che prevedono la nullità dei patti contrattuali, che determinano gli interessi con rinvio agli usi, introdotte con la L. 17 febbraio 1992, n. 154, art. 4, poi trasfuso nel D.Lgs. 1 settembre 1983, n. 385, art. 117, non sono retroattive, alla pari della disciplina in materia d’usura(cfr Cass., civ., Sez. I, sent. n. 4853 del 01.03.2007).

Pertanto, in mancanza di pattuizioni contrattuali, successive all’08 luglio 1992, si applicherà ai contratti di apercredito utilizzati con scoperto in conto corrente di corrispondenza, stipulati ante legge 154/92, solo ed esclusivamente le norme di cui all’art. 1284 c.c.

Il principio si ricava anche da una pronuncia della Corte Costituzionale, ord. n. 338 del 18.12.2009, che così ha precisato: come eccepito dall’Avvocatura, parte della giurisprudenza di legittimità e di merito (si vedano: Cassazione 1° marzo 2007, n. 4853, e Cassazione 21 dicembre 2005, n. 28302; nonché Tribunale ordinario di Cagliari, sentenza 27 maggio 2002, n. 1441, e Tribunale ordinario di Reggio Emilia, sentenza 17 novembre 2001), muovendo dalla premessa secondo cui la irretroattività (sancita dall’art. 161, comma 6, del testo unico bancario) della nuova disciplina della nullità delle clausole di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi di interesse si estende anche alla censurata previsione (ex art. 1284, comma 3°, c.c.) della sostituzione automatica della clausola nulla, il cui effetto opera in ragione (ed a cagione) della nullità parziale derivante dalla mancata osservanza di requisiti sostanziali e formali di singole clausole di contratti stipulati nella vigenza della nuova disciplina – conclude viceversa nel senso della applicabilità ai contratti stipulati anteriormente non già della censurata nuova previsione sostitutiva, bensì degli interessi legali di cui, appunto, al citato art. 1284, terzo comma, del codice civile (come recepito anche dal Tribunale di Lecce, con lasentenza n. 407 del 16 dicembre 2009).

Recentemente, la giurisprudenza ha precisato che: “per i contratti di conto corrente stipulati in data anteriore all’entrata in vigore della delibera CICR 9 febbraio 2000, esse sono nulle, per contrarietà all’art. 1283 c.c. e in virtù della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 120, c. 3, d.lgs. 385/93, a prescindere dal fatto che abbiano rivestito forma scritta; che la introduzione, successiva alla entrata in vigore della detta delibera, di clausole che prevedono la capitalizzazione con la medesima periodicità, per gli interessi debitori e creditori è da ritenersi peggiorativa ai sensi dell’art. 7 della delibera stessa e, quindi, necessita di una espressa pattuizione/rinegoziazione tra le parti, oppure di una introduzione unilaterale conforme al meccanismo dello ius variandi disciplinato dall’art. 118 d.lgs. 385/1993(cfr Tribunale di Lanciano, Dott. Giovanni Nappi, Ord. 2 maggio 2014, R.G. 60/2013), in quanto: “per i rapporti di conto corrente iniziati prima dell’entrata in vigore della delibera CICR, 9 febbraio 2000, è richiesta una specifica pattuizione delle nuove modalità di capitalizzazione, non essendo sufficienti, al riguardo, la comunicazione delle stesse e la loro pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. La delibera CICR, infatti, esclude la necessità di una specifica pattuizione solo per il caso di modifiche migliorative rispetto a quelle previste dalla clausola nulla (cfr Tribunale Napoli 27 giugno 2013; Tribunale Treviso 10 giugno 2013; Cass., SS.UU. sent, n. 24418 del 02.12.2010; Tribunale di Messina, sent. . 618 del 21.03.2013; Tribunale di Cassino, Sez. Sora, sent. n. 19 del 26.01.2012).

E’, quindi, illegittima la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi applicata dall’istituto bancario nei confronti del cliente correntista,in conseguenza deve essere dichiarata la nullità delle clausole di capitalizzazione trimestrale sulle commissioni di massimo scoperto., quindi sussiste la legittimità della richiesta giudiziale come azione di indebito oggettivo, con oggetto la ripetizione di somme illegittimamente incassate dalla banca.

L’intimazione in merito alla restituzione di queste somme è, quindi, conseguente alla declaratoria di nullità del titolo contrattuale in base al quale sono avvenuti i pagamenti degli interessi anatocistici. Il credito, poi, è soggetto al principio generale per cui la  prescrizione ordinaria è decennale, e non quinquennale , con individuazione del dies a quo nel momento della definitiva chiusura del conto.

Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

 

Tassi usurai

Ai fini dell’applicazione dell’art. 644 c.p., e dell’art. 1815 c.c., co. 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, conseguentemente anche a titolo di interessi moratori.

Infatti, il riferimento, contenuto nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1, co. 1, agli interessi a qualunque titolo convenuti, rende plausibile – senza necessità di specifica motivazione – un tale contesto.

La problematica del possibile cumulo delle varie tipologie di interessi e competenze, ai fini della rilevabilità del tasso usurario, è un argomento che da sempre infiamma le contrapposte fazioni dei filobancari, da una parte, e dei formalisti dall’altra.

E’, pertanto, doveroso, prima di ogni successivo commento, la normativa di riferimento.

Basilare è, al riguardo, l’art. 644, comma 1, c.p., che così recita: “Chiunque, fuori dei casi previsti dall’articolo 643, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari 

[c.c. 14481815], è punito con la reclusione da due a dieci anni e con la multa da euro 5.000 a euro 30.000”.

Il comma 3, medesimo articolo, recita: “La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari (c.d. usura oggettiva). Sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria” (c.d. usura soggettiva).

Il comma 4, pari articolo, chiarisce che: “Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito”.

L’art. 1815, comma 2, c.c., assume che: “Se sono convenuti interessi usurari [c.p. 644, 649], la clausola è nulla e non sono dovuti interessi” [c.c. 13391419].

Infine, per l’art. 1. della L. n. 24/2001, così recita: 1. Ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.

Come si vede, tutte le norme parlano di “interessi, commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese”, senza effettuare alcuna distinzione.

In altre parole, è la pattuizione economica, complessivamente considerata, ad essere o non essere usuraria al momento della stipula.

Non può sfuggire come la normativa provveda, altresì, a precisare che “la sanzione viene comminata a chiunque si fa dare o promettere “… sotto qualsiasi forma …” ed “… a qualsiasi titolo …” come corrispettivo degli interessi (o altri vantaggi) usurari”.

Di tutta evidenza, comunque, che “la pattuizione economica o è usuraria o non lo è”.

Certo, va vista in concreto la formulazione del contratto al fine di verificare se le parti abbiano inteso applicare solo uno spread al tasso degli interessi corrispettivi, in caso di mancato pagamento, oppure abbiano stabilito che, oltre agli interessi corrispettivi, siano dovuti degli interessi di mora determinati secondo un calcolo autonomo.

Non va neppure trascurata l’ampiezza dello spread normativo, da applicare ai tassi medi per estrarre il tasso soglia, comprendendo così tutti gli interessi, commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, a qualunque titolo pattuiti, che devono essere considerati come un dato unico da raffrontare al tasso soglia.

Va da sé, poi, che, in un particolare momento dello svolgimento del “mutuo”, vengano, sempre e comunque, a sommarsi tanto l’interesse corrispettivo quanto quello di mora, laddove il cliente sia in arretrato nel pagamento (anche di una sola rata di mutuo), prima ancora della comunicazione di perdita del beneficio del termine (art. 1186 c.c.), avviene che a quella rata, come quantificata nel piano di ammortamento (quota capitale più interessi), vengano applicati anche gli interessi di mora, nel mentre, tutto ciò è possibile solo ad avvenuta comunicazione della perdita del beneficio del termine, intimata dalla banca, che richiede quindi l’immediato pagamento della residua sorte capitale, oltre agli interessi di mora.

Di tutta evidenza che, nella fattispecie, si prospetti il cumulo di interessi corrispettivi con gli interessi di mora, anche per le rate scadute.

Ed infatti, nel contesto descritto, la scorporazione dell’interesse corrispettivo dal capitale avviene solo a seguito della perdita del beneficio del termine da parte del cliente e non prima, dove avviene la sovrapposizione dei due interessi, nel mentre va evitata un’interpretazione abrogativa della L. n. 24/2001 che considera “cumulativamente i vantaggi a qualunque titolo e sotto qualsiasi forma pat= tuiti in favore del mutuante”.

E’ pur vero, comunque, che, per taluna giurisprudenza, “gli interessi corrispettivi implicano la regolare esecuzione del rapporto e rappresentano il corrispettivo del prestito, mentre gli interessi moratori assolvono ad una funzione risarcitoria forfetizzata e preventiva del danno da ritardo nel pagamento di una somma esigibile”, ma, in tal caso, si determinerebbe l’esclusione dei tassi di mora dal calcolo dell’usura, in quanto solo eventuali e riconducibili al futuro inadempimento.

Tale giurisprudenza, assume, poi, che i tassi di mora sono assoggettati (se separatamente considerati) alla disciplina di cui agli artt. 644 c.p. e 1815 c.c., nel mentre, se sommati ai tassi corrispettivi, sono assoggettati alla normativa solo per la parte che superi il tasso soglia, per cui, la parte degli interessi corrispettivi andrebbe pagata, mentre non andrebbe pagata quella relativa agli interessi di mora.

Una tale interpretazione, quindi, vorrebbe trattare la materia riconducendola quale “scomposizione dell’obbligazione usuraia”, in palese violazione, però, al dettato normativo, ex art. 1815, comma 2, c.c., che, invece, ha una chiara funzione punitiva, laddove prevede che “non sono dovuti interessi” – quindi tutti i singoli interessi, non effettuando, la norma, alcuna distinzione tra “interessi corrispettivi e interessi moratori”.

Parlare di “nullità parziale della clausola usuraria” è, palesemente, contra legem.

Del tutto ovvio, comunque, che la nullità di una singola clausola implica la conservazione del contratto (c.d. principio di conservazione degli atti giuridici), ex art 1419 c.c.

Infatti, la pattuizione di tassi corrispettivi superiori al tasso-soglia se integra un reato, nonché un illecito civile, non si vede perché non debba sottostare alla stessa sanzione, od anche solo a quella di natura civilistica.

Non è, pertanto, possibile, in un contratto usurario, frammentare la condotta lecita da quella illecita.

Ne deriva che all’usuraio va restituito il solo capitale, mentre l’interesse va totalmente soppresso avendo la normativa penale, ma anche quella civilistica, una funzione punitiva.

 Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

 

Contratto di finanziamento – TAEG – assicurazione vita e infortuni

Non sono dovuti gli interessi previsti nel contratto di finanziamento se il TAEG non considera l’assicurazione vita e infortuni.

A tali conclusioni è giunto nei giorni scorsi l’Arbitro Bancario Finanziario del Collegio di Roma, il quale afferma che: “il costo relativo alla polizza vita sottoscritta insieme al finanziamento deve essere incluso necessariamente nel calcolo del TAEG, in modo da rendere informato il consumatore di quanto effettivamente pagherà per quel finanziamento” (pronuncia ABF Collegio di Roma, del 13/03/2015).

Il Collegio, infatti, dichiara che: “se lo scopo del TAEG è quello di fornire la chiara e immediata rappresentazione del costo totale del credito, la mancata inclusione dell’assicurazione in tale per= centuale determina un grave problema di trasparenza, oltre che un falso affidamento del cliente, con susseguente nullità del TAEG, disponendosi, pertanto, a rideterminazione degli importi dovuti, eventualmente restituendo l’eccedenza percepita rispetto a quanto dovuto”.

In pratica, L’ABF con tale pronuncia – dopo aver accertato che il TAEG dichiarato dall’istituto bancario non era corretto – ha condannato la banca ad applicare un tasso di gran lunga inferiore (come previsto dall’art. 125bis, commi 6 e 7, del Testo Unico Bancario, ossia il tasso nominale minimo dei buoni del tesoro annuali) obbligandola a restituire l’eccedenza.

Una volta dichiarata la nullità della previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna.

Se il contratto è viziato all’origine e sfora i parametri massimi di soglia dettati dalla Banca d’ Italia, s’ intendono nulle tutte le clausole che pattuiscono gli interessi, mentre il contratto rimane valido a favore del debitore per la sola quota capitale. In buona sostanza, una volta fatto valere in sede civile l’ annullamento delle clausole usuraie il debitore dovrà restituire ratealmente come da piano di ammortamento il solo capitale. Si parla di usura bancaria quando l’ interesse annuo effettivo ottenuto, sommando le spese addebitate + interessi pagati chiesti dalla Banca, ad esclusione dei fissati bollati statali, superano il tasso di soglia aumentato del 50% pubblicato periodicamente  dalla Banca d’ Italia.

Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

 

Termine prescrizione per reclamo somme in c.c.

Il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute dalla banca indebitamente a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che da luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicchè è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro.

Ogni qual volta un rapporto di durata implichi prestazioni in denaro ripetute e scaglionate nel tempo si pensi alla corresponsione dei canoni di locazione o d’affitto, oppure del prezzo nella somministrazione periodica di cose (l’unitarietà del rapporto contrattuale ed il fatto che esso sia destinato a protrarsi ancora per il futuro non impedisce di qualificare indebito ciascun singolo pagamento non dovuto, se ciò dipende dalla nullità del titolo giustificativo dell’esborso, sin dal momento in cui il pagamento medesimo abbia avuto luogo), in quanto il c.d. è sempre da quel momento che sorge dunque il diritto del solvens alla ripetizione e che la relativa prescrizione inizia a decorrere.

Perchè possa sorgere il diritto alla ripetizione di un pagamento indebitamente eseguito, tale pagamento deve esistere ed essere ben individuabile.

Il pagamento, per dar vita ad un’eventuale pretesa restitutori, a di chi assume di averlo indebitamente effettuato, debba essersi tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte di quel medesimo soggetto (solvens), con conseguente spostamento patrimoniale in favore di altro soggetto (accipiens), per cui lo sì può dire indebito (con conseguente diritto di ripeterlo), ex art. 2033 c.c., quando difetti di una idonea causa giustificativa.

Non può, pertanto, ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico, definibile come pagamento, che l’attore pretende essere indebito, perchè prima di quel momento non è configurabile alcun diritto di ripetizione.

Nè tale conclusione muta nel caso in cui il pagamento debba dirsi indebito in conseguenza dell’accertata nullità del negozio giuridico, in esecuzione al quale è stato effettuato, altra essendo la do= manda volta a far dichiarare la nullità di un atto, che non si prescrive affatto, altra quella volta ad ottenere la condanna alla restituzione di una prestazione eseguita.

Ne segue che il termine di prescrizione inizia a decorrere non dalla data della decisione, che abbia accertato la nullità del titolo giustificativo del pagamento, ma da quella de pagamento stesso.

Come agevolmente si evince dal disposto degli artt. 1842 e 1843 c.c., l’apertura di credito si attua mediante la messa a disposizione, da parte della banca, di una somma di denaro che il cliente può utilizzare, anche in più riprese, e della quale, per l’intera durata del rapporto, può ripristinare in tutto o in parte la disponibilità eseguendo versamenti che gli consentiranno poi eventuali ulteriori prelevamenti entro il limite complessivo del credito accordatogli.

Se, pendente l’apertura di credito, i correntista non si sia avvalso della facoltà di effettuare versamenti, pare indiscutibile che non vi sia alcun pagamento da parte sua, prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato.

In tal caso, qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a causa del computo di interessi in misura non consentita, l’eventuale azione di ripetizione d’indebito non potrà che essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto, e solo da quel momento comincerà perciò a decorrere il relativo termine di prescrizione.

Di pagamento potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del. quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente al’atto della chiusura del conto.

Se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati.

Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

Usura – sanzioni

Le sanzioni in caso di usura sono più incisive.

Infatti, il diritto penale annovera l’usura come reato (ex art. 644 c.p.) e ciò comporta una maggiore reazione dell’ordinamento giudiziario rispetto ad un illecito civile.

Il reato di usura prevede l’apertura di un’indagine penale, con intervento del Pubblico Ministero che ha particolari poteri di indagine e persecutori nei confronti di possibili usurai.

Sul fronte civilistico le sanzioni conseguenti all’usura sono molto incisive e particolarmente penalizzanti per l’usuraio.

L’Art. 1815 c.c prevede che in caso di usura, non siano dovuti interessi, come modificata dalla legge 108/1996 che ha inasprito la sanzione.

Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

Sovraindebitamento del soggetto non fallibile

Per definire positivamente la procedura di sovraindebitamento, del soggetto non fallibile, può bastare l’offerta ai creditori di un soddisfo del 2,5% dei crediti vantati, come precisato dal Tribunale di Bergamo, con la sentenza del 31 marzo del 2015.

Con la riforma della Legge n. 3/2012, si istituisce la procedura per la ristrutturazione dei debiti dei privati, cioè di coloro che, non rientrando nei presupposti della legge fallimentare (sia perché al disotto dei limiti dimensionali ivi previsti, sia perché  soggetti  non imprenditori), rimanevano esclusi da ogni possibilità di soluzione globale delle proprie posizioni debitorie.

Con la suddetta procedura, per cui ci si deve avvalere dell’ausilio del “professionista di legge abilitato”, è ammissibile, previo consenso di una percentuale pari al 70% dei creditori interessati e con l’omologa da parte del tribunale del luogo di residenza  del debitore, accedere ad un accordo di ristrutturazione del debito che ricalca i presupposti contenuti nell’art.182 della legge fallimentare.

Viene così consentito anche al privato cittadino, e/o al piccolissimo imprenditore, di frenare una pluralità di azioni, esperite in via autonoma da ciascun singolo creditore, mediante proposizione, ai creditori, di un piano di rientro valido e supportato dal vaglio del tribunale.

Si avrà, in questo modo, la possibilità, anche per il comune debitore, di fornire una soluzione globale a tutto il proprio passivo, con un nuovo strumento in grado di garantire una soluzione che investe l’intero patrimonio, risparmiando, tanto al debitore quanto al singolo creditore, i tempi ed i costi delle esecuzioni individuali, che non sempre riescono a salvaguardare i diritti patrimoniali.

Con gli artt. da 6 a 20, della Legge n. 3/2012, il legislatore ha fissato: “ l’ambito di ingresso, le modalità di apertura della procedura, l’istruttoria, il procedimento, l’omologazione, la esecuzione, le patologie ed anche le sanzioni penali”, per la composizione della crisi da sovraindebitamento, garantendosi, comunque, una tutela anche a coloro che non abbiano aderito all’accordo.

Poiché trattasi di una procedura fruibile da parte del debitore intenzionato a siglare  un accordo qualificato su un proprio piano di fuoriuscita dalla crisi (serio e meritevole), il giudice, esperito il giudizio sull’ammissibilità della proposta, rende  il patrimonio del debitore inattaccabile da inizia= tive aggressive singolari, evitando, per 120 giorni, la procedibilità di azioni esecutive e cautelari, oltre che la nascita di cause di prelazione.

Con l’art. 7, della Legge n.3/2012, si prevede, quindi, che il debitore possa proporre, ai credito= ri, con l’ausilio degli organismi di composizione della crisi, un accordo concernente la ristruttu= razione dei debiti.

Il piano può anche fissare una moratoria di un anno, nonché prevedere che il rispetto dello stesso e l’adempimento alle scadenze concordate, sia deferito ad un liquidatore appositamente nominato per l’esecuzione della procedura.

Un ruolo di rilievo è affidato alle attività di “asseverazione dell’organismo di composizione della crisi”, che interviene valutando  la realizzabilità del piano, nonché la veridicità dei dati  allegati alla proposta.

L’organismo di composizione della crisi, nella prima fase, provvede ad istruire la procedura , rac= cogliendo i consensi ed indirizzando al giudice le relative relazioni e contestazioni, spettando, successivamente al Tribunale  il giudizio di omologazione dell’accordo raggiunto.

A garanzia della serietà della procedura esistono norme penali che prevedono fattispecie di reato in capo al debitore ed all’organo di composizione della crisi, tese ad evitare abusi ad attestazioni non veritiere onde conferire maggiore tutela ai creditori che aderiscono all’accordo.

 

Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

 

 

Ruolo dell’organismo di composizione della crisi da sovraindebitamento

Come ben statuisce l’art. 17 della Legge n. 3/2012, all’organismo di composizione della crisi spetta, in generale, ogni iniziativa funzionale alla predisposizione del piano di ristrutturazione, e tale accordo, presuppone necessariamente la presenza di un “Piano economico finanziario”, il quale deve:

a ) essere idoneo ad assicurare il regolare pagamento dei creditori rimasti estranei all’accordo;

b ) prevedere il pagamento integrale dei creditori privilegiati;

c ) prevedere l’eventuale suddivisione dei creditori in classi e stabilire le modalità e le scadenze del loro pagamento;

d ) enumerare le garanzie rilasciate per l’adempimento dei debiti;

e ) indicare i criteri in base ai quali verranno liquidati i beni.

Nel piano potrà, altresì, essere prevista la nomina di un “fiduciario”, per la custodia dei beni del de= bitore, per la loro liquidazione e per la distribuzione del ricavato ai creditori, e/o, in alternativa, de= mandarsi al Tribunale la nomina di un “liquidatore giudiziale”.

Il suddetto organismo può, così, assumere ogni più opportuna iniziativa funzionale alla predisposi= zione del piano finalizzata al superamento della crisi da sovraindebitamento, collaborando con il debitore ed i creditori anche attraverso la modifica del piano oggetto della proposta di accordo.

Ne sovviene che l’intento del legislatore sia stato quello di affidare, a tale organismo, il compito di assistere il debitore, fin dall’inizio del procedimento (quindi anche nella fase di redazione e della stessa predisposizione del piano da sottoporre all’attenzione dei creditori), nonché nella necessaria predisposizione di tutta la documentazione di supporto, al fine di offrire un supporto tecnico a soggetti che spesso non hanno le risorse interne per provvedervi.

La proposta di accordo deve essere corredata da molteplici documenti, quali:

a ) l’elenco di tutti i creditori e dei relativi crediti (con specifica degli interessi dovuti e dei crediti contestati), così da permettere, ai creditori, l’espressione di un consenso realmente informato;

b ) l’elenco dei beni del debitore;

c ) la lista degli atti di disposizione patrimoniale compiuti negli ultimi cinque anni (prospetto essen= ziale per operare il controllo sull’eventuale abuso dell’istituto da parte dei debitori che si siano spogliati di taluni o di tutti i beni);

d ) le scritture contabili relative agli ultimi tre anni (unitamente ad una dichiarazione che ne attesta la conformità all’originale);

e ) le dichiarazioni dei redditi degli ultimi cinque anni;

f ) una relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale;

g ) un elenco delle spese correnti per il sostentamento del debitore imprenditore individuale e della sua famiglia (unitamente al certificato dello stato di famiglia idoneo ad illustrare anche la composizione del nucleo familiare).

Alla documentazione, di cui sopra, il debitore deve aggiungere (giusta la previsione di cui all’art. 4, comma 2, del D.L. n. 212/2011), l’attestazione dell’organismo di composizione che, oltre ad attesta= re, certifica la fattibilità del piano e la veridicità dei dati contenuti nella proposta e nei documenti allegati.

 

Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

 

Procedimento di omologazione

Esperita la fase di predisposizione del piano e della relativa documentazione, sussegue l’intervento del Tribunale, che è tenuto a verificare la corrispondenza dei requisiti di legge, nella cui esistenza si provvede ad attuare i necessari passaggi, quali:

a ) fissazione dell’udienza;

b ) disposizione della comunicazione ai creditori;

c ) disposizione di idonea forma di pubblicità della proposta e del decreto (per attività di impresa la proposta ed il decreto devono essere pubblicati nell’apposita sezione del Registro delle imprese);

d ) emanazione del provvedimento sull’inibitoria di atti pregiudizievoli nei confronti del debitore proponente, per una durata max di 120 giorni, e fissazione di un termine entro il quale i creditori possono esprimere consenso e/o dissenso.

Aperto il procedimento, con il provvedimento sull’inibitoria, occorre ottenere l’adesione dei credi= tori alla proposta di accordo.

All’organismo/professionista, in questa fase della procedura, spetterà ogni iniziativa funzionale al raggiungimento dell’accordo e alla buona riuscita dello stesso.

L’organismo/professionista, che in considerazione dell’interesse pubblico superiore per il quale è stata introdotta la norma in esame, dovrà assumere una figura super partes, provvederà ad:

a ) intervenire per garantire il raggiungimento dell’accordo, svolgendo anche compiti di “media= zione” con i creditori;

b ) operare con tempestività e immediatezza al fine di raccogliere, rapidamente le adesioni dei creditori ed ottenere l’omologazione (entro il termine di 120 giorni previsto dalla legge), come periodo di inibitoria per le azioni pregiudizievoli sul patrimonio del debitore proponente.

Il debitore, direttamente, e/o tramite l’ausilio del suo professionista, e/o della banca, acquisita la consapevolezza del proprio stato di crisi, provvederà a definire una strategia volta ad uscire da tale situazione, attraverso l’individuazione di una serie “di punti certi”, atti a potere risanare la posizione di accertato squilibrio.

In questa fase,l’organismo/professionista si pone nella dialettica tra debitore e creditori, non solo con l’intento di assisterli e di collaborare con gli stessi, ma concretamente al fine di porre in atto tutte quelle tecniche che possano condurre ad una soluzione della crisi da sovraindebitamento.

Raggiunto l’accordo, con le percentuali richieste, l’organismo/professionista di composizione della crisi, provvederà a trasmettere ai creditori una relazione sui consensi espressi e sul raggiungimento del quorum, allegando il testo dell’accordo, così che, nei 10 (dieci) giorni successivi al ricevimento di detta relazione, i creditori possono sollevare eventuali contestazioni, e l’organismo di composizione della crisi trasmetterà, poi, al Giudice la relazione contenente le informazioni relative ai consensi espressi, allegando le eventuali contestazioni ricevute, rilasciando, al giudice, un’attestazione definitiva sulla fattibilità del piano.

Detta documento, pertanto, è da parificarsi comeun’attestazione a contenuto analogo a quello previsto nel concordato preventivo e nell’art. 182 bis L.Fall.

Il giudice, verificato il raggiungimento delle percentuali richieste e risolta ogni eventuale contesta= zione, provvede ad omologare l’accordo.

L’organismo di composizione della crisi si farà, quindi, cura dell’effettuazione della pubblicità della proposta e dell’accordo ed effettuerà le comunicazioni disposte dal giudice nell’ambito del procedi= mento.

 

Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

 

 

Concordato preventivo con falcidia o dilazione dei debiti tributari

L’Agenzia delle Entrate, con comunicato stampa n. 19, del 06 maggio 2015, ha precisato che: “il concordato preventivo, con falcidia o dilazione dei debiti tributari, è ammissibile anche se non è stata presentata la domanda di transazione fiscale e sottolinea l’intangibilità del credito Iva e del credito per le ritenute operate e non versate”.

La presentazione della domanda di “transazione fiscale” non costituisce un obbligo per il debitore che, nell’ambito del concordato preventivo, chiede la falcidia o la dilazione dei debiti tributari, per cui il concordato preventivo con falcidia o dilazione è ammissibile anche in assenza di domanda di transazione fiscale.

In questo caso, tuttavia, l’omologazione del concordato non comporta l’effetto di consolidamento del debito tributario proprio della transazione.

Va, quindi, da sé che il debito tributario, relativo all’IVA, può essere solo “oggetto di dilazione e non di falcidia”, e ciò vale anche per le “ritenute operate e non versate”.

Tra i debiti risanabili rientrano anche quelli di natura fiscale, fermo restando che, come detto, per l’IVA e per le ritenute, è possibile la sola “dilazione del pagamento”.

Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

 

 Consumatore – sovraindebitamento – edebitazione

Per “sovraindebitamento” la legge intende una situazione perdurante di squilibrio tra le obbligazioni assunte ed il proprio patrimonio prontamente liquidabile, nonché la definitiva incapacità di adem= piere regolarmente alle proprie obbligazioni.

Palesemente, questa è una definizione piuttosto ampia, che potrebbe includere, pertanto, la gran parte dei casi in cui il consumatore deve onorare diversi contratti debiti (ad esempio rate di finan= ziamento, mutuo, debiti tributari, etc.).

Il procedimento per la composizione delle crisi da sovraindebitamento permette di rivolgersi ad un organismo apposito o a un professionista abilitato (commercialisti, avvocati, notai) e poi al tribunale con un piano di rientro che, se accolto, diventerà vincolante per i creditori, anche se non tutti i debiti saranno onorati.

Laddove la procedura ha esito positivo, il debitore sarà “esdebitato”, ovvero sarà libero da ogni debito ancora non onorato.

Ove il piano non fosse possibile o fosse respinto dal giudice, il consumatore potrà comunque acce= dere alla procedura di liquidazione del patrimonio.

Durante l’esecuzione della procedura, il giudice sospende ogni azione esecutiva (pignoramento etc.) dei creditori nei confronti dei beni del debitore.

Al riguardo, “il consumatore” ha a disposizione tre diverse procedure cui poter ricorrere:

1 )Accordo con i creditori.

Questa procedura prevede che la proposta avanzata, tendente alla esdebitazione, sia sottoscritta dai creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti.

Si ritiene, pertanto, sconsigliabile, detta procedura , per i consumatori, ritenendosi, per gli stessi, certamente più vantaggioso il “piano del consumatore”, che non necessita del consenso di alcun creditore. 

2 ) Piano del consumatore.

Questa procedura si ritiene particolarmente consigliata per i consumatori, ovvero per le persone fi= siche che hanno fatto debiti esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o profes= sionale eventualmente svolta.

Nel caso, infatti, non è vincolante l’accordo con i creditori, pur se, comunque, dovrà darsi assicura= zione, ai creditori, di una soddisfazione maggiore di quella che avrebbero attraverso la liquidazione di tutti i beni del consumatore.

I requisiti di ammissibilità al piano del consumatore sono:

a ) accertata situazione di sovraindebitamento;

b ) essere soggetti esclusi dalle procedure concorsuali previste nella legge fallimentare (ovvero, solo consumatori, artigiani, professionisti, etc.);

c ) non aver fatto ricorso alla stessa procedura nei cinque anni precedenti;

d ) non aver subito la risoluzione, revoca o cessazione degli effetti del piano del consumatore;

e ) fornimento di documentazione atta a consentire di ricostruire, compiutamente, la situazione eco= nomica e patrimoniale.

3 ) Liquidazione del patrimonio.

In alternativa al piano del consumatore, si può avanzare richiesta finalizzata alla liquidazione di tutti i propri beni.

Per meglio chiarire, se non è possibile agire attraverso il piano del consumatore (che permette un certo margine di scelta su quali beni cedere), si rinuncia a tutti i propri beni (ad eccezione di alcuni impignorabili), così da ottenere l’esdebitazione.

Detta procedura è consentita anche laddove si sia soggetti a procedura concorsuali diverse, e/o lad= dove sia già stato fatto ricorso nei precedenti cinque anni al piano del consumatore, e/o all’accordo con i creditori (condizioni, queste, che invece non permettono di accedere alle altre due procedure).
Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

 

Piano del consumatore

Al fine di usufruire del “piano del consumatore” si rende necessario trovare un professionista abilitato (avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ragionieri commercialisti, notai), e/o società di professionisti abilitati, iscritti in un apposito elenco presso il Ministero della Giustizia, disposti ad assisterlo in questa procedura.

In ogni caso, gli organismi di conciliazione (già oggi esistenti presso le Camere di Commercio), gli ordini professionali di avvocati, notai, commercialisti ed esperti contabili, potranno assumere anche il ruolo di organismi di composizione della crisi da sovraindebitamento su semplice domanda.

Fra i compiti che detti organismi/professionisti svolgono (oltre all’assunzione di ogni opportuna iniziativa, funzionale alla predisposizione del piano di ristrutturazione, al raggiungimento dell’ac= cordo e alla buona riuscita dello stesso), vi è:

a ) la collaborazione con il debitore e con i creditori, anche attraverso la modifica del piano oggetto della proposta di accordo;

b ) la verifica della veridicità dei dati contenuti nella proposta e nei documenti allegati;

c ) l’attestazione della fattibilità del piano;

d ) la trasmissione al giudice della relazione sui consensi espressi e sulla maggioranza raggiunta;

e ) la pubblicità della proposta e dell’accordo;

f ) le comunicazioni disposte dal giudice.

Il consumatore potrà fare istanza di nomina del professionista al Presidente del Tribunale del proprio luogo di residenza, dopodiché sarà il professionista a curare l’intero iter del procedimento.

Il professionista dovrà redigere il “piano del consumatore”, preveggente la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti, con scadenze e modalità di pagamento dei creditori, anche se suddivisi in classi, con l’indicazione delle eventuali garanzie rilasciate per l’adempimento dei debiti e le modalità per l’eventuale liquidazione dei beni.

E’ possibile prevedere che i crediti, muniti di privilegio, pegno o ipoteca, possano non essere soddisfatti integralmente, allorché ne sia assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione.

Il piano può inoltre prevedere la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei redditi futuri (ad esempio, con la cessione di una parte dello stipendio).

Se i beni o i redditi del debitore non sono sufficienti a garantire la fattibilità del piano, la proposta deve essere sottoscritta da uno o più soggetti, che consentono il conferimento, anche in garanzia, di redditi o beni sufficienti per l’attuabilità dell’accordo.

Il piano può anche prevedere una moratoria fino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione.

Il piano del consumatore deve essere depositato, a cura del professionista, presso il tribunale del luogo di residenza del consumatore.

Con il deposito del piano, si sospende il corso degli interessi convenzionali e legali, ad eccezione che per i crediti garantiti da ipoteca, pegno o privilegio.

Nel caso tra i creditori vi siano anche Pubbliche Amministrazioni (Agenzia delle Entrate, Comuni, etc.) o agenti per la riscossione (es, Equitalia), il piano dovrà anche contenere la ricostruzione della posizione fiscale del consumatore e l’indicazione di eventuali contenziosi pendenti.

Inoltre, entro 3 (tre) giorni dal deposito del piano in tribunale, il professionista dovrà presentare il piano sia alle Pubbliche Amministrazioni creditrici che agli agenti di riscossione coinvolti.

Unitamente al piano, il consumatore deve presentare:

1 ) l’elenco di tutti i creditori, con l’indicazione delle somme dovute, dei beni e degli eventuali atti di disposizione compiuti negli ultimi cinque anni, corredati delle dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni e dell’attestazione sulla fattibilità del piano, nonché l’elenco delle spese correnti necessarie al sostentamento suo e della sua famiglia, previa indicazione della composizione del nucleo fami= liare corredata del certificato dello stato di famiglia;

2 ) una relazione particolareggiata del professionista che deve contenere:

a ) l’indicazione delle cause dell’indebitamento e della diligenza impiegata dal consumatore nell’assumere volontariamente le obbligazioni;

b ) l’esposizione delle ragioni dell’incapacità del debitore di adempiere le obbligazioni assunte;

c ) il resoconto sulla solvibilità del consumatore negli ultimi cinque anni;

d ) ‘indicazione della eventuale esistenza di atti del debitore impugnati dai creditori;

e ) il giudizio sulla completezza e attendibilità della documentazione depositata dal consumatore a corredo della proposta, nonché sulla probabile convenienza del piano rispetto all’alternativa liqui= datoria.

Nella carenza della documentazione, il giudice può concedere al massimo 15 (quindici) giorni per la presentazione di integrazioni e nuovi documenti.

Una volta depositato il piano, se conforme ai requisiti di cui sopra, il giudice fissa immediatamente l’udienza con decreto d’urgenza.

Il professionista dovrà trasmettere il piano e il decreto a tutti i creditori almeno 30 (trenta) giorni prima dell’udienza.

L’udienza deve tenersi comunque entro 60 giorni dal deposito del piano.

Sempre nel decreto d’urgenza, quando nelle more della convocazione dei creditori, la prosecuzione di specifici procedimenti di esecuzione forzata (pignoramento etc.) potrebbe pregiudicare la fatti= bilità del piano, il giudice può disporre la sospensione degli stessi sino al momento in cui il provve= dimento di omologazione diventa definitivo.

Verificata la fattibilità e idoneità del piano, il giudice, quando esclude che il consumatore ha as= sunto obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere ovvero che ha colposa= mente determinato il sovraindebitamento, anche per mezzo di un ricorso al credito non proporzio= nato alle proprie capacità patrimoniali, omologa il piano, disponendo per il relativo provvedimento una forma idonea di pubblicità.

L’omologazione (o il rigetto dell’omologazione) deve intervenire entro sei mesi dal deposito del piano del consumatore.

Il decreto di omologazione è equiparato all’atto di pignoramento.

Quando il piano prevede “la cessione o l’affidamento a terzi di beni immobili o di beni mobili re= gistrati”, il decreto deve essere trascritto, a cura del professionista.

Se invece il giudice rigetta il piano, con l’ordinanza di diniego revoca il provvedimento di sos= pensione delle azioni esecutive contenute nel decreto d’urgenza.

Di grande importanza il fatto che “il giudice possa omologare il piano del consumatore anche quando i creditori non sono d’accordo”, se ritiene che il credito possa essere soddisfatto dall’esecu= zione del piano in misura non inferiore a quella che si otterrebbe con la procedura della liquidazione dei beni.

Dalla data di omologazione è vietato ai creditori anteriori di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, né iniziare o proseguire azioni cautelari o acquistare titoli di prelazione sul patrimonio del consumatore, nel mentre ai creditori posteriori è vietato procedere con azioni esecutive sui beni oggetto del piano del consumatore.

La sospensione viene meno: “in caso di mancato pagamento di crediti impignorabili, oppure quando il credito riguarda risorse proprie della UE, l’IVA e alle ritenute operate e non versate”.

Nel caso in cui per soddisfare i creditori vengano utilizzati beni già pignorati, o se previsto dallo accordo, il giudice (su proposta del professionista) nomina un liquidatore che dispone in via esclusiva degli stessi e delle somme incassate.

Spetta al professionista risolvere le eventuali difficoltà insorte nell’esecuzione del piano e vigilare sull’esatto adempimento dello stesso, comunicando ai creditori ogni eventuale irregolarità, nel mentre spetta al giudice esprimersi sulle contestazioni che hanno ad oggetto la violazione di diritti soggettivi e sulla sostituzione del liquidatore per giustificati motivi.

Il giudice, sentito il liquidatore e verificata la conformità dell’atto dispositivo all’accordo e al piano, autorizza lo svincolo delle somme e ordina la cancellazione della trascrizione del pignoramento, delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché di ogni altro vincolo.

A garanzia del rispetto dell’accordo, i pagamenti e gli atti dispositivi dei beni posti in essere in vio= lazione dell’accordo e del piano sono inefficaci.

Se l’esecuzione del piano diviene impossibili per ragioni non imputabili al consumatore, questi insieme al professionista può chiedere al giudice una modifica della proposta.

Le cause di “revoca del piano e cessazione degli effetti dell’omologazione”, si verificano laddove il debitore non esegue integralmente, entro 90 (novanta) giorni dalle scadenze previste, i pagamenti dovuti secondo il piano alle Amministrazioni pubbliche e agli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie, nonchè se risultano compiuti, durante la procedura, atti diretti a frodare le ragioni dei creditori.

In tal caso il giudice provvede d’ufficio con “decreto reclamabile”.

Il tribunale, su istanza di ogni creditore (da farsi entro sei mesi dalla scoperta, e in contraddittorio con il debitore), dichiara cessati gli effetti dell’omologazione del piano:

a) quando è stato dolosamente o con colpa grave aumentato o diminuito il passivo, ovvero sottratta o dissimulata una parte rilevante dell’attivo ovvero dolosamente simulate attività inesistenti, con is= tanza da presentarsi non oltre 2 (due) anni dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempi= mento previsto dal piano.

b) se il proponente non adempie agli obblighi derivanti dal piano; se le garanzie promesse non ven= gono costituite; se l’esecuzione del piano diviene impossibile (anche per ragioni non imputabili al debitore), con istanza da presentarsi, in ogni caso, entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto dal piano.

Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

 

Consumatore – esdebitazione

Con l’esecuzione del “piano del consumatore o della procedura di liquidazione”, il consumatore è “esdebitato”, ovvero ottiene il beneficio di essere liberato dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti.

Per ottenere l’esdebitazione, il consumatore dovrà provvedere a fare ricorso al giudice entro l’anno successivo alla chiusura della liquidazione.

Il giudice dichiara, quindi, inesigibili i crediti non soddisfatti integralmente.

Il decreto di esdebitazione avviene a condizione che il consumatore:

a) abbia cooperato al regolare ed efficace svolgimento della procedura, fornendo tutte le infor= mazioni e la documentazione utili, nonché adoperandosi per il proficuo svolgimento delle opera= zioni;

b) non abbia in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura;

c) non abbia beneficiato di altra esdebitazione negli 8 (otto) anni precedenti la domanda;

d) non sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per uno dei reati previsti;

e) abbia svolto, nei 4 (quattro) anni, di cui all’articolo 14-undecies, un’attività produttiva di reddito adeguata rispetto alle proprie competenze e alla situazione di mercato o, in ogni caso, abbia cercato un’occupazione e non abbia rifiutato, senza giustificato motivo, proposte di impiego;

f) siano stati soddisfatti, almeno in parte, i creditori per titolo e causa anteriore al decreto di apertura della liquidazione.

L’esdebitazione è esclusa:

a) quando il sovraindebitamento del debitore è imputabile ad un ricorso al credito colposo e sproporzionato rispetto alle sue capacità patrimoniali;

b) quando il debitore, nei 5 (cinque) anni precedenti l’apertura della liquidazione, e/o nel corso della stessa, ha posto in essere atti in frode ai creditori, pagamenti o altri atti dispositivi del proprio patrimonio, ovvero simulazioni di titoli di prelazione, allo scopo di favorire alcuni creditori a danno di altri.

I debiti non oggetti di esdebitazione, sono quelli:

a) derivanti da obblighi di mantenimento e alimentari;

b) da risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale, nonché le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti;

c) riguardanti i debiti fiscali che, pur avendo causa anteriore al decreto di apertura delle procedure, sono stati successivamente accertati in ragione della sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi.

Il provvedimento di esdebitazione è sempre revocabile, su istanza dei creditori, se risulta che:

a) il debitore, nei 5 (cinque) anni precedenti l’apertura della liquidazione o nel corso della stessa, ha posto in essere atti in frode ai creditori, pagamenti o altri atti dispositivi del proprio patrimonio, ovvero simulazioni di titoli di prelazione, allo scopo di favorire alcuni creditori a danno di altri;

b) è stato dolosamente o con colpa grave aumentato o diminuito il passivo, ovvero sottratta o dissimulata una parte rilevante dell’attivo ovvero simulate attività inesistenti.

Il debitore è punito con la reclusione da sei mesi a 2 anni e con la multa da € 1.000 a € 50.000 se:
a) al fine di ottenere l’accesso alla procedura, aumenta o diminuisce il passivo ovvero sottrae o dissimula una parte rilevante dell’attivo ovvero dolosamente simula attività inesistenti;

b) al fine di ottenere l’accesso alla procedura, produce documentazione contraffatta o alterata, ovvero sottrae, occulta o distrugge, in tutto o in parte, la documentazione relativa alla propria situazione debitoria ovvero la propria documentazione contabile;

c) omette l’indicazione di beni nell’inventario allegato al piano;

d) dopo il deposito della proposta del piano, e per tutta la durata della procedura, aggrava la sua posizione debitoria;

e) intenzionalmente non rispetta i contenuti del piano del consumatore.

Sanzioni penali (da sei mesi a tre anni di reclusione e multa da € 1.000 a € 50.000) anche per professionisti che rendono false attestazioni o causano un danno ai creditori omettendo o rifiutando senza giustificato motivo un atto del loro mandato

 

Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

 

Legge fallimentare – imprenditore – esdebitazione

L’esdebitazione è un beneficio contenuto nella Legge fallimentare, R.D. 16 marzo 1942, n. 267, che consente all’imprenditore, persona fisica, dichiarato fallito, di potersi liberare dai debiti che residu= ano nei confronti dei creditori non soddisfatti dopo la chiusura del fallimento, consentendogli di potere avviare una nuova attività d’impresa senza dover sopportare il peso di debiti residui derivanti dal fallimento, oramai chiuso, venendo di fatto azzerate tutte le posizioni debitorie fallimentari.

Possono beneficiare dell’esdebitazione tanto gli imprenditori individuali, quanto i soci illimitata= mente responsabili di una società dichiarata fallita, vale a dire i soci di una società semplice, e/o di una società in nome collettivo, nonché i soci accomandatari di una società in accomandita semplice.

Al fine dell’esdebitamento occorre soddisfare i requisiti oggettivi, per cui:

a) la procedura fallimentare deve essere stata dichiarata chiusa per effetto della ripartizione dell’at= tivo risultante dal fallimento attraverso un piano di riparto;

b) i creditori concorsuali devono, inoltre, essere stati, almeno in parte, soddisfatti dal momento che, in caso contrario la richiesta di esdebitazione non potrebbe essere proposta.

E’, inoltre, richiesto il rispetto di alcuni requisiti soggettivi, poiché il beneficio dell’esdebitazione può essere concesso soltanto agli imprenditori che abbiano improntato il proprio comportamento a principi di correttezza e di trasparenza nei confronti della procedura fallimentare, per cui l’imprenditore:

a ) non deve aver beneficiato di un’altra esdebitazione nei 10 (dieci) anni precedenti;

b ) non deve aver rappresentato, nel corso della procedura fallimentare, una situazione contabile dell’impresa fallita diversa dalla realtà, attraverso comportamenti diretti a distrarre l’attivo del pa= trimonio dell’impresa oppure esponendo passività insussistenti;

c ) non deve, inoltre, aver cagionato, e/o aggravato il dissesto economico dell’impresa, rendendo così più difficile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, né aver fatto ricorso abusivo al credito;

d ) non deve essere condannato, in via definitiva, per bancarotta fraudolenta, e/o per delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, e/o per altri delitti compiuti in connessione con l’esercizio dell’attività d’impresa, fatto salvo che non sia intervenuta la riabilitazione.

I creditori, nel caso di esdibitazione, non potranno neppure richiedere il pagamento degli interessi e si estingueranno anche le eventuali garanzie reali (pegno ed ipoteca), sebbene rimangano fatti salvi i diritti vantati nei confronti di coobbligati e dei fideiussori del debitore, oltre che degli obbligati in via di regresso.

I creditori, quindi, in forza dell’esdebitamento non potranno più pretendere dal debitore il paga= mento:

a) dei debiti residui di cui erano titolari i creditori ammessi allo stato passivo che il fallito non è stato in grado di soddisfare integralmente;

b) dei debiti anteriori alla procedura di fallimento di cui erano titolari quei creditori che non hanno tuttavia depositato la domanda di ammissione al passivo.

Non rientrano invece nella procedura di esdebitazione:

a)  i debiti relativi agli obblighi di mantenimento e alimentari;

b) i debiti derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa;

c)  i debiti per il risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale;

d) le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti.

 

Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura

 

Contendibilità e soluzioni finanziarie

Il Decreto “Contendibilità e soluzioni finanziarie” ha integrato la normativa riguardante gli accordi di ridefinizione delle passività, disciplinando lo specifico caso in cui i debiti siano per almeno il 50% nei confronti di creditori finanziari, prevedendo la possibilità di suddividere costoro in catego= rie omogenee, per posizione giuridica ed interesse economico (art. 182-sepites del R.D. 16.3.1942, n. 267).

È stato, inoltre, ampliato l’ambito applicativo dell’assunzione dei finanziamenti prededucibili che possono essere autorizzati anche per fare fronte ad urgenti necessità dell’attività aziendale (art. 182-quinquies L. fall.).

L’art. 182-septies, co. 2, L. fall. stabilisce che l’accordo di ristrutturazione dei debiti può individu= are una o più categorie tra i predetti creditori finanziari che abbiano tra loro posizione giuridica ed interessi economici omogenei: potrebbe trattarsi, ad esempio, di creditori bancari che abbiano cre= diti (bancari) privilegiati o comunque assistiti da garanzie reali, o invece crediti causalmente simili (crediti da anticipazione bancaria, mutuo ipotecario, ecc.).

Rimane, in ogni caso, fermo che non sussiste alcun obbligo di rispetto della graduazione dei privi= legi.

L’art. 182-septies co. 2 L. fall stabilisce, inoltre, che il debitore può chiedere – mediante l’istanza di omologazione – che gli effetti dell’accordo siano estesi anche ai creditori non aderenti che appar= tengono alla medesima categoria omogenea, purchè risultino soddisfatte ogni specifica condizione di legge.

In sede di applicazione del suddetto art. 182-septies co. 2 del R.D. 267/1942, non si tiene, tuttavia, conto (analogamente a quanto già previsto in ambito di concordato preventivo, con riguardo a tutti i creditori), delle ipoteche giudiziali iscritte dalle banche o dagli intermediari finanziari nei 90 giorni precedenti alla data di pubblicazione dell’accordo nel Registro delle Imprese.

Gli accordi di ristrutturazione, congiuntamente al concordato preventivo si fanno forza anche della previsione di cui all’art. 1, comma 1 lett. b, D.L. 83/2015, per cui è stato aggiunto, dopo il comma 2 dell’art. 182-quinquies del R.D. 267/1942, specifiche disposizioni dirette a salvaguardare la conti= nuità aziendale, qualora il debitore presenti uno dei predetti atti:

a ) domanda di concordato preventivo “in bianco” (art. 161 co. 6 L. fall.), anche in assenza del piano concordatario contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta, l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile procurata in favore di ciascun creditore (art. 161 co. 2 lett. e) L. fall.),

b ) istanza di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 182-bis co. 1 L. fall.),

c ) preaccordo di ridefinizione delle passività (art. 182-bis co. 6 L. fall.),

così chiedendosi al Tribunale di essere autorizzato, in via d’urgenza, a contrarre finanziamenti (prededucibili ai sensi dell’art. 111 L. fall.), funzionali ad urgenti necessità relative all’esercizio dell’attività aziendale fino, rispettivamente, alla scadenza del termine fissato dal tribunale per il deposito del piano e della proposta di concordato preventivo (art. 161 co. 6 L. fall.), oppure alla omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 182-bis co. 4 L. fall.), o alla scadenza del termine per la presentazione dell’intesa di ridefinizione delle passività (art. 182-bis co. 7 L. fall.).

In un tale contesto, il Tribunale, assunte sommarie informazioni sul piano e sulla proposta, sentito il commissario giudiziale, se nominato e, se del caso, ascoltati i principali creditori, decide in camera di consiglio, con decreto motivato, entro 10 giorni dal deposito dell’istanza di autorizzazione.

L’introduzione dell’art. 182-septies L. fall. ha comportato l’integrazione (in forza dell’art. 10 del DL 83/2015 e dell’art. 236 L. fall.), per cui “è punito con la reclusione, da uno a cinque anni, anche l’imprenditore che, al solo scopo di ottenere l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti con intermediari finanziari o il consenso degli stessi alla sottoscrizione della convenzione di moratoria, si sia attribuito attività inesistenti, ovvero – per influire sulla formazione delle maggio= ranze – abbia simulato crediti in tutto o in parte inesistenti”.

L’art. 9 del DL 83/2015, in vigore dal 27.6.2015, ha introdotto l’art. 182-septies L. fall., per stabili= re che quando un’impresa ha passività verso banche ed intermediari finanziari in misura non infe= riore alla metà dell’indebitamento complessivo, la disciplina dell’art. 182-bis L. fall. – in deroga agli artt. 1372 e 1441 c.c. – è integrato da alcune specifiche norme, fermi restando i diritti dei cre= ditori non finanziari.

Un’ulteriore modifica apportata dall’art. 1 del D.L. n. 83/2015 all’art. 182-quinquies L.fall. ha inte= ressato il co. 3 di quest’ultima norma: è stato, infatti, esteso il potere del Tribunale, che può auto= rizzare il debitore non soltanto a concedere pegno ipoteca, ma anche a cedere crediti, a garanzia dei finanziamenti oggetto di istanza.

La facoltà del Tribunale di ricorrere all’ausiliario trova fondamento nel D.L. 83/2015.

 

Dott. Davide Franzoni Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura